Nel corso della mia vita ho avuto la straordinaria fortuna di potermi misurare in ruoli diversi sui temi dell’industria culturale. Da politico sono stato Ministro dei Beni e delle Attività Culturali; sono stato sindaco di Roma, città per la quale la cultura in tutte le sue forme è l’attività trainante; ora il mio impegno è tutto dedicato ad attività creative come la realizzazione di film, la scrittura, il giornalismo. Le ultime due, a dire il vero, le ho sempre esercitate anche quando la politica era per me estremamente assorbente.

Ho sempre creduto, qualunque fosse il mio ruolo, nella centralità della cultura e in quella dell’industria culturale (due concetti che qui in Italia non sempre vanno a braccetto e che anzi talvolta appaiono contrapposti). Da Ministro ho innanzitutto puntato a non separare le attività legate ai beni culturali lette soprattutto come attività di conservazione da quelle per le attività e la creatività, che in precedenza erano viste più che altro come un semplice flusso di finanziamenti rivolto ad alcune attività di spettacolo. Tutte cose buone, ovviamente, ma insufficienti e poco dinamiche. Accanto al dovere della conservazione dei beni, infatti, non si può dimenticare quello altrettanto importante della loro valorizzazione. Che non significa “messa a reddito”, anche se di questo c’è bisogno per chi come noi possiede la maggioranza assoluta di tutti i beni culturali del mondo. Significa anzitutto possibilità di una fruizione maggiore, più piena e dinamica. Si tratta di concetti che hanno a lungo faticato a passare, ma basta guardare i musei di un tempo e quelli di oggi per cogliere le differenze.

Tutto fatto? Tutt’altro. Credo che ancora in questo settore manchi l’idea di una industria culturale rispettosa e capace di conservare, ma al tempo stesso di usare le enormi risorse tecnologiche che possono far comprendere a tutti il senso del bene che stanno vedendo. Le rivoluzioni di questi anni ci consegnano strumenti nuovi e insieme diffusi ed economici (realtà rafforzata, app, tridimensionalità, occhiali interattivi): una industria culturale attiva è quella che riesce a riempire di contenuti questi strumenti, adattandoli ai nuovi media. Vedo in giro molte idee, moltissime start-up di ragazzi piene di creatività, ma ancora pochi investimenti e poca dimensione industriale. Ecco una sfida.

C’è poi il mondo delle attività culturali e della creatività di consumi culturali. La loro domanda va stimolata e le loro richieste vanno seguite senza dimenticare i campi vicini dell’istruzione e della didattica. Vedo delle novità: nel mondo della televisione ad esempio, dove i nuovi canali specializzati e gli “arcipelaghi” strutturati attorno alle capofila (Rai, Mediaset, Sky) si sono affiancati alle vecchie reti generaliste senza cancellarle. Siamo in una fase di passaggio (in cui persino gli strumenti di misurazione come l’Auditel si dimostrano insufficienti e invecchiati) e non è facile ancora comprendere quali saranno le prossime evoluzioni. Vedo però anche che cinema e fiction, sul grande schermo come su quello (sempre più sofisticato) del televisore, stanno avendo una fase di crescita positiva. Certamente in termini di quantità di prodotti, e questo non può che farmi piacere visto che sono stato io da Ministro a volere che una quota delle produzioni televisive dovessero essere Made in Italy, in anni in cui tutto sembrava arrivare dall’estero salvo il vecchio varietà e l’informazione. Ma anche in termini di qualità. C’è (torna ad esserci) una scuola italiana della fiction che vende all’estero: un tempo succedeva con La piovra, oggi con Gomorra, non a caso due serie su temi strettamente italiani, ma che hanno la capacità di “bucare” oltre i nostri confini e in entrambi i casi con scelte stilistiche e industriali molto italiane.

Anche qui ovviamente i segnali positivi (che arrivano peraltro dopo una lunga fase di crisi) non sono sufficienti a farci dire che la soluzione è stata trovata. Ma i passi in avanti ci sono: serve più collaborazione tra pubblico e privato, servono più investimenti negli strumenti nuovi, serve complessivamente un pubblico sempre più formato alla fruizione della cultura e sempre più esigente. Serve anche non aver paura delle novità. Un mondo come quello della musica ci ha dimostrato che la fine dei vecchi supporti e l’arrivo di nuovi modi di consumo hanno sì terremotato il vecchio, strutturato e un po’ impigrito il mondo dell’industria musicale; ma non hanno ridotto il consumo di musica né la nascita di nuovi talenti e nuovi artisti, anche attraverso la ricerca di nuove forme di remunerazione (dalla rete all’esplodere degli spettacoli dal vivo).

Insomma, le strade nuove vanno cercate e il compito delle istituzioni pubbliche è quello di aiutarle ad emergere. Quello del privato è di crederci e sperimentare. Quello degli artisti, di essere creativi e sperimentatori. Ma questo è il loro mestiere.

Compito delle istituzioni è quello di aiutare nuove strade ad emergere. Quello del privato è di sperimentare. Quello degli artisti di essere creativi. Ma questo è il loro mestiere.

Walter Veltroni